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IL CREDO

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IL CREDO

L’origine del Cristianesimo aquileiese

Il Cristianesimo ad Aquileia affonda le sue radici tra il I e il II secolo d.C., probabilmente tramite contatti con comunità giudaiche, ma si consolidò pienamente tra la seconda metà del III secolo e il IV secolo, diventando un centro fondamentale per l’evangelizzazione del Nord Adriatico. In questo orizzonte delle origini si inserisce anche la circolazione del Pastore di Erma, celebre testo cristiano del II secolo attribuito a Erma, fratello di papa Pio I: la sua presenza nei codici diffusi nell’area aquileiese testimonia l’apertura della comunità locale verso la primissima letteratura cristiana e le sue riflessioni sulla vita morale e sulla penitenza.
La particolare iconografia di parte dei mosaici della Basilica patriarcale, risalente al III secolo, testimonia la presenza di una comunità di origine alessandrina aderente allo gnosticismo. I simboli musivi sembrano rappresentare il cammino dell’anima attraverso le dimensioni superiori dell’esistenza, riflettendo rituali di purificazione e ascesa spirituale. Queste influenze mostrano il forte legame tra Aquileia e le correnti spirituali gnostiche di Alessandria d’Egitto.
Il vescovo Teodoro (308–319) guidò la comunità al tempo dell’editto di Costantino del 313, consolidando la vita cristiana e costruendo la Basilica episcopale, centro di culto e formazione catechetica. Aquileia partecipò attivamente alla lotta contro l’arianesimo e ospitò nel 381 un concilio occidentale che contribuì a contrastare l’eresia.
La città produsse figure di rilievo come Rufino e Cromazio e vide sorgere numerosi edifici religiosi. Nonostante i saccheggi di Attila, le invasioni longobarde e franche e le incursioni ungariche, Aquileia mantenne viva la sua tradizione religiosa, consolidando un ruolo di primo piano nella storia del cristianesimo occidentale, anche grazie alle radici culturali e spirituali che la legavano ad Alessandria.

Il Credo di Aquileia, tramandato da Rufino, rappresenta una delle più antiche professioni di fede dell’Occidente cristiano ed esprime con grande chiarezza la tradizione teologica maturata nella Chiesa aquileiese tra IV e V secolo. Si tratta di un testo distintivo, dotato di specificità proprie che lo differenziano dal Symbolum Romanum e ne rivelano la maturità dottrinale. Una delle sue caratteristiche più evidenti è l’enfasi cristologica: il Credo afferma con forza la piena divinità di Cristo in un’epoca segnata dalle controversie ariane, quando la definizione della relazione tra il Figlio e il Padre era cruciale per salvaguardare l’ortodossia. L’insistenza sulla consustanzialità del Figlio, pur senza usare ancora il linguaggio niceno in forma stabile, mostra l’intenzione della comunità aquileiese di collocarsi con chiarezza nel solco della fede apostolica.
Rufino commenta questa professione di fede attraverso un ricco linguaggio simbolico, tipico delle comunità cristiane dei primi secoli, quando la rappresentazione figurativa del Cristo sofferente era ancora poco diffusa e spesso teologicamente sensibile. Per spiegare il parto verginale di Maria ricorre alla celebre immagine della “porta chiusa” del profeta Ezechiele, un’allegoria che permette di esprimere il mistero dell’Incarnazione senza ricorrere a una descrizione diretta. Questo uso del simbolo non è un semplice espediente retorico, ma un vero metodo catechetico ereditato dai maiores nostri, cioè dai padri della tradizione cristiana, che trasmettevano la fede con un equilibrio raffinato tra discrezione, sapienza biblica e profondità spirituale.
Nel Credo compare anche il riferimento all’impassibilità di Dio, intesa come impossibilità di essere soggetto a passioni o mutamenti. Tale caratteristica, fondamentale per la teologia patristica, distingue la natura divina e permette di comprendere l’Incarnazione senza confusione tra l’umanità mortale di Cristo e la sua divinità eterna: il Figlio soffre nella carne, ma la natura divina resta immutata. Questo elemento era decisivo per evitare interpretazioni dinamiche o subordinazioniste, particolarmente diffuse nel contesto post-arianista.
La professione di fede aquileiese è parte integrante della vita liturgica del Patriarcato e sopravvivrà nei secoli attraverso il rito patriarchino, utilizzato nelle metropolie di Aquileia, Grado e Venezia. Questo rito, pur appartenendo alla tradizione latina, conserverà tratti arcaici e formule che testimoniano la continuità con la tradizione simbolica descritta da Rufino. Il radicamento del Credo nella catechesi, nella prassi battesimale e nella liturgia lo rese un documento d’identità comunitaria oltre che un testo dottrinale.
La sua autorevolezza emerge con forza nel passo conclusivo riportato da Rufino, dove si afferma la piena comunione della fede di Aquileia con Roma, Alessandria e Gerusalemme, le grandi sedi della cristianità antica. Tale dichiarazione non è un semplice gesto di deferenza, ma il riflesso della volontà di collocare Aquileia all’interno della rete delle Chiese apostoliche:
«Credo in Dio Padre onnipotente, invisibile e impassibile… Al di fuori di questa fede, che è comune a Roma, Alessandria e Aquileia, e che si professa anche a Gerusalemme, altra non ho avuto, non ho e non ne avrò in nome di Cristo. Amen.»
Il Credo di Aquileia appare così come una finestra preziosa sulle origini del cristianesimo: un intreccio di simboli, dottrina e memoria che illumina la storia spirituale di una delle sedi più influenti dell’Occidente antico, capace di porsi come ponte tra l’eredità apostolica e la ricchezza teologica del mondo mediterraneo.

La proposta di Guglielmo Biasutti

Guglielmo Biasutti, sacerdote e studioso friulano nato nel 1904, ha lasciato un segno profondo negli studi sulle origini del cristianesimo ad Aquileia, proponendo letture che mettevano in discussione la storiografia consolidata. All’inizio del Novecento, infatti, la ricerca ufficiale – influenzata dal positivismo – relegava la tradizione marciana, secondo cui San Marco avrebbe fondato la Chiesa aquileiese, a leggenda medievale. Storici come Pio Paschini collocavano l’arrivo del cristianesimo solo a metà del III secolo, rendendo Aquileia una chiesa tardiva e periferica.

Biasutti, con energia intellettuale e spirituale, ribaltò questa visione. Attraverso un’analisi critica delle fonti, retrodatò le origini della Chiesa aquileiese tra la seconda metà del I e il II secolo, sostenendo che non fosse stata cristianizzata dal filone petrino o paolino, ma da missionari provenienti da Alessandria d’Egitto. La tradizione marciana, in questa prospettiva, non era leggenda, ma memoria di un reale legame con la sede apostolica alessandrina, che conferiva ad Aquileia una filiazione autonoma e indipendente da Roma.

A sostegno, Biasutti avanzò argomenti originali: la lettera XII dell’epistolario ambrosiano sarebbe in realtà opera del vescovo aquileiese Valeriano; il culto sabbatico e lo schema plebanale riflettevano pratiche tipiche della Chiesa alessandrina; la presenza di comunità giudaico-cristiane confermava la vicinanza con le tradizioni di Alessandria.

Il suo lavoro culminò nel libro postumo Il cristianesimo primitivo nell’Alto Adriatico, pubblicato nel 2005 a cura di Giordano Brunettin, rimasto incompleto per la morte dello studioso nel 1985. Nonostante ciò, rappresenta una pietra miliare per la comprensione delle origini cristiane di Aquileia.

Le ricerche di Biasutti hanno stimolato nuovi dibattiti, mostrando Aquileia come città culturalmente e teologicamente vivace, parte di un dialogo con grandi sedi cristiane come Alessandria, Antiochia e Costantinopoli. Ancora oggi, le sue intuizioni restano un punto di riferimento imprescindibile per lo studio del cristianesimo nell’Alto Adriatico e nella Chiesa occidentale.

Lo scisma dei Tre Capitoli

Tra il VI e il VII secolo, la Chiesa visse una lunga divisione chiamata scisma dei Tre Capitoli. Tutto ebbe inizio quando alcuni vescovi occidentali rifiutarono le decisioni del Concilio di Costantinopoli II del 553, che condannava tre teologi antiocheni accusati di errori dottrinali. Questi vescovi si separarono dal papa e dalla Chiesa ufficiale, creando uno scisma di circa centocinquant’anni, soprattutto in Italia settentrionale, Dalmazia e alcune regioni dell’Africa.
Il contesto era complesso: il Concilio di Calcedonia del 451 aveva stabilito che Cristo aveva due nature, umana e divina, condannando il monofisismo. Tuttavia, questa dottrina non era accettata ovunque, soprattutto in Egitto, Siria e Palestina. L’imperatore Giustiniano cercò di riconciliare Oriente e Occidente, ma la condanna dei tre teologi antiocheni provocò la protesta dei vescovi occidentali.
Con l’invasione dei Longobardi nel 568, la situazione si complicò ulteriormente. Milano e alcune diocesi tornarono presto in comunione con Roma, ma il Patriarcato di Aquileia rimase separato, diviso tra Grado, sotto controllo bizantino, e Aquileia, protetta dai Longobardi. La Chiesa di Aquileia rimase tricapitolica, calcedoniana e anti-monofisita, senza alcuna eresia cristologica, pur non riconoscendo l’autorità papale. Il patriarca Severo e i suoi successori tentarono varie mediazioni, ma rimasero isolati per decenni, mentre Grado costituiva una sede alternativa.
Lo scisma si concluse alla fine del VII secolo, tra il 698 e il 699, quando il re longobardo Cuniperto sconfisse il duca ariano Alachis e favorì la riunificazione di Aquileia con Roma, chiudendo così un lungo periodo di divisioni.
I messali aquileiesi
Nelle antiche diocesi di Aquileia, Grado e Venezia, fino al XVI secolo, i fedeli e i sacerdoti si affidavano ai messali aquileiesi, libri liturgici che contenevano tutto il necessario per celebrare la Messa secondo il rito patriarchino, detto anche rito aquileiese. Questi messali non erano semplici raccolte di preghiere: riflettevano le caratteristiche particolari della liturgia locale e si differenziavano dal rito romano in molti dettagli.
Il rito patriarchino era un rito proprio della Chiesa cattolica, distinto dal romano, e comprendeva testi e preghiere specifiche, canti originali e rubriche con istruzioni precise per la celebrazione. I messali, quindi, non contenevano solo orazioni ed eucologia, ma anche inni e melodie liturgiche locali, rubriche dettagliate e il calendario con le feste e i santi del territorio, evidenziando così la tradizione aquileiese.
Rispetto al rito romano, i messali aquileiesi presentavano alcune variazioni: i testi delle preghiere erano diversi, i canti avevano uno stile particolare e le rubriche offrivano indicazioni specifiche per la liturgia patriarcale. Un esempio emblematico è il manoscritto della pieve di San Daniele, datato tra XIV e XV secolo, che riporta indicazioni precise del calendario locale e conferma l’origine aquileiese di queste pratiche (Biblioteca Guarneriana).

Il Rito Patriarchino: Storia e Caratteristiche

Il rito patriarchino, o rito aquileiese, è un antico rito liturgico della Chiesa cattolica latina, utilizzato con lievi varianti nelle metropolie dei Patriarcati di Aquileia, Grado e Venezia fino al XVI secolo. Già in epoca antica si notava la sua differenza rispetto al rito romano e il legame con le liturgie orientali. Cromazio d’Aquileia evidenziava influenze dall’Asia Minore, come il rito pre-battesimale della Lavanda dei piedi, la celebrazione della Pasqua secondo l’omelia di Melitone di Sardi, e alcune modifiche nel simbolismo animale dei Vangeli.
Il rito era già in uso nell’arcidiocesi di Aquileia e nelle diocesi suffraganee quando, nel 568, la chiesa divenne Patriarcato. Durante lo scisma dei Tre Capitoli e la separazione del Patriarcato di Grado, il rito si trasmise alle due sedi e si diffuse nelle diocesi della Dalmazia. Il documento più antico che lo testimonia è un capitolare dell’VIII secolo nel Codex Richdigeranus. Successivamente il rito si diffuse anche a Venezia, Monza e Como.
Nel tardo Medioevo, il rito si avvicinò progressivamente a quello romano: fu abbandonato a Venezia (esclusa San Marco) nel 1456, a Trieste nel 1586 e nel Patriarcato di Aquileia nel 1596. A Como fu mantenuto fino al 1598 per imposizione papale. La basilica di San Marco di Venezia continuò ad usarlo fino al 1807. Sequenze aquileiesi sono state inserite nel Lezionario romano in lingua friulana nel 2004.
Dal punto di vista liturgico, il rito patriarchino era simile a quello gregoriano-romano, con alcune differenze nel calendario: l’Avvento comprendeva cinque domeniche, Santo Stefano era celebrato il 27 dicembre, la Quaresima includeva solo la Sessagesima e la Quinquagesima, e si celebravano due messe sia la domenica precedente la Pasqua sia il Giovedì Santo, oltre alla festa di Mezza-Pentecoste. Diffusi erano anche grecismi e il ricorso al catecumenato.
Il rito comprendeva un particolare canto liturgico, detto canto aquileiese o patriarchino, ancora eseguito in alcune località di montagna del Veneto, Friuli, Istria e Dalmazia, dove storicamente si trovavano le giurisdizioni dei Patriarcati di Aquileia, Grado e Venezia.

I messali aquileiesi

I messali aquileiesi rappresentano uno dei testimoni più importanti della tradizione liturgica dell’antica Chiesa di Aquileia. Si tratta di libri contenenti i testi della messa secondo il rito patriarchino, un rito latino specifico della metropolia di Aquileia che si estese anche alle diocesi di Grado e Venezia, e rimase in uso fino al XVI secolo. Questi messali riflettevano l’identità culturale della regione, celebrando santi locali come Ermacora e Fortunato e includendo celebrazioni particolari come la consacrazione della chiesa di San Daniele, evidenziando il legame tra liturgia e vita quotidiana.

Le origini del rito patriarchino risalgono ai primi secoli dopo le persecuzioni cristiane, quando le comunità cercavano di consolidare e trasmettere la fede attraverso pratiche liturgiche coerenti. Pur appartenendo al filone latino, il rito si distingueva per elementi unici: i messali contenevano sequenze e tropi, forme poetiche e dialogate che arricchivano la celebrazione e la rendevano più partecipata. Alcune sequenze avevano un effetto così intenso sul popolo da assumere quasi valore magico, dimostrando il forte legame tra devozione popolare e vita sociale.

I messali erano anche opere d’arte: le pagine erano decorate con calligrafie elaborate, motivi floreali e miniature, che ne facevano oggetti preziosi oltre che strumenti di culto. La diffusione del rito patriarchino comprendeva tutta la metropolia e le sedi filiali, creando un tessuto liturgico coerente ma capace di valorizzare le tradizioni locali. Col tempo, dal XV al XVI secolo, l’uso dei messali specifici si ridusse a causa delle riforme liturgiche, e molti manoscritti furono conservati come reliquie o adattati a nuove esigenze liturgiche.

In sintesi, i messali aquileiesi testimoniano la ricchezza del rito patriarchino, la sua capacità di connettere liturgia e cultura locale e la centralità di Aquileia nella storia del cristianesimo latino. Conservano l’immagine di una Chiesa attiva, creativa e radicata nel territorio, la cui eredità continua a illuminare lo studio della liturgia e della vita religiosa dell’Alto Adriatico.

Il canto aquileiese

Il canto aquileiese, o canto patriarchino, era uno stile liturgico specifico del patriarcato di Aquileia e delle sue diocesi dipendenti. La sua origine risale alla rielaborazione locale di influssi orientali e occidentali: da un lato, la tradizione liturgica dell’Egitto e della Tebaide, portata da San Cromazio e dai suoi successori, dall’altro le influenze dei monasteri benedettini europei, come San Gallo e Pomposa, durante l’Alto Medioevo.
Aquileia, città di grande rilevanza commerciale e culturale, sviluppò un repertorio liturgico e musicale proprio prima di Milano, esercitando un’influenza notevole anche sul canto romano. I canti aquileiesi erano caratterizzati da uno stile semisillabico o neumatico, che conferiva loro solennità e semplicità. Essi includevano neumi propri, toni particolari, tropi, sequenze e drammi sacri, alcuni dei quali risalivano al VII-VIII secolo. Le melodie erano spesso simili a quelle bizantino-orientali e presentavano una libertà ritmica che mescolava forme binarie e settenarie.
Il repertorio aquileiese comprendeva anche i discanti e la musica per la fractio panis, elemento che non si ritrova né nel canto romano né in quello ambrosiano delle origini, e che testimonia la trasmissione di pratiche orientali attraverso Aquileia. Durante la sua storia, il canto patriarchino si mantenne vitale fino alla fine del XVI secolo, quando il rito aquileiese fu abolito nel sinodo di Udine del 1596.
Pur spesso associato a una presunta fondazione apostolica della Chiesa di Aquileia, la liturgia locale mostra in realtà radici lontane in Oriente, testimoniando l’antica eredità teologica e musicale della città, che coniugava la spiritualità cristiana con la cultura musicale europea e mediterranea.